Durante una delle mie prime lezioni all’università il professore di psichiatria parlò della comunicazione. In quell’occasione fece una distinzione tra una comunicazione “verbale” – esplicita – e una “non verbale” – implicita, indicando quest’ultima come più “vera” rispetto alla prima, perché non filtrata dalla ragione o da qualsivoglia sovrastruttura.
Dopo quasi due mesi vissuti nell’orizzonte ristretto di casa potersi muovere negli spazi all’improvviso immensi della città implica paura e meraviglia. È proprio da questo sentimento misto di paura e meraviglia che nasce la presunzione di voler applicare il concetto di comunicazione non verbale alla città.

Questo si traduce nel chiedersi cosa possa nascere dalla meraviglia per il blu del cielo, per il marciapiede sotto ai piedi, per il sole. Meraviglia per la città che, nel silenzio in cui continua – in una certa misura – ad essere immersa, sembra in realtà volerci mostrare grandi verità, che forse in altri tempi non avremmo avuto la pazienza o gli occhi per vedere.







Ci si ritrova a sbirciare da fuori i propri paradisi perduti e a rendersi conto di come sia il loro essere “perduti” a renderli belli, ancora di più. Proprio come quando l’oggetto del nostro amore si allontana ed è nel momento stesso in cui ciò accade che quell’oggetto assume un valore nuovo, mai avuto prima. Perché non è più “nostro”.
Tra i paradisi perduti c’è anche l’altro, con la sua vicinanza spaziale. Si inizia ad abitare uno spazio nuovo, all’improvviso più grande, tra sé e l’altro. Si scopre così una nuova fisicità: incontri non di mani o braccia ma di rime palpebrali che si stringono in un sorriso di occhi, in un prego o buongiorno a sconosciuti. In uno svelarsi un po’ il cuore durante attese – che siano per il supermercato o per il semaforo – mai state così belle.

Nel silenzio la bellezza delle strade dà l’impressione di essere rimasta tutto il tempo lì, ad aspettare che arrivassimo noi, coi nostri occhi, a celebrarla. Ogni cosa esistente (da ex-istemi: essere fuori. Ogni cosa che sta fuori di noi) sembra urlare, nell’aria ovattata, per essere guardata e riconosciuta.

Sembra che le strade invoglino ad indugiare ancora un po’ nel tempo interiore che abbiamo riscoperto nelle settimane passate. Indugiare ancora un po’ nelle piccole o grandi verità che abbiamo ritrovato nel fondo di noi stessi quando, costretti a togliere tutto il contingente, ci siamo resi conto – con stupore – di non essere barattoli vuoti. Ma che nel fondo era rimasto qualcosa: forse il solo qualcosa veramente importante. E ricordarci, nel futuro, di guardare il cielo. E saper ringraziare: per il cielo, la primavera. Per la vita.




“La notte massacrata dal giorno
Tutto intorno si rischiara il cielo
Le botte che hai preso ti hanno fatta rossa in faccia

Maria Francesca Saija